Il presidente Commissione lavoro alla Camera, Damiano, ha dichiarato che «la sentenza della Cassazione era scontata. La cancellazione dell’articolo 18 riguarda solo i dipendenti privati. Non credo si debba armonizzare la disciplina togliendolo anche ai lavoratori pubblici, semmai restituendolo ai privati». «Dati Istat vanno presi con le molle, quello indicativo è il tasso di attività»
Cesare Damiano del Partito Democratico, nonché presidente Commissione lavoro alla Camera ed ex ministro del lavoro, è intervenuto ai microfoni di Radio Cusano Campus in merito al pronunciamento della Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla legge Fornero, bensì dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «E’ una sentenza abbastanza scontata, persino attesa», ha spiegato Damiano. «Il ministro Poletti oggi ha ribadito che il governo non ha mai avuto intenzione di applicare il Jobs act per quanto riguarda l’articolo 18 ai dipendenti pubblici, ma esclusivamente ai dipendenti privati. Il ministro Madia ha inoltre ribadito che non c’è alcuna intenzione da parte sua di prevedere l’estensione ai dipendenti pubblici di questa nuova normativa che regola il licenziamento. Mi pare che la Corte di Cassazione abbia chiarito che, stante l’attuale legislazione, è legittima questa differenziazione. Anche nel lavoro privato ci sono due discipline. Per quanto riguarda i lavoratori assunti con il contratto a tempo indeterminato, prima del 7 marzo 2015, l’articolo 18 c’è ancora. Chi parla di Apartheid, che andrebbe evitato, deve considerare che esiste l’Apartheid in quanto nello stesso settore privato ci sono due normative differenti tra di loro. Armonizzazione tra pubblico e privato? Io penso che non si debba fare».
«La Corte riconosce la differenza, stante l’attuale legislazione, che si basa anche su una questione essenziale: chi entra nel pubblico impiego fa un concorso, cosa che non esiste nel settore privato. Aggiungo anche che c’è in atto una revisione delle normative che riguardano i licenziamenti dei dipendenti pubblici, che rendono queste normative molto più tassative. L’abbiamo visto anche con gli ultimi episodi legati ai cosiddetti furbetti del cartellino, si procede più speditamente e si cerca di passare da una sorta di possibilità ad un obbligo da parte del dirigente ad applicare la norma sul licenziamento. Riferendomi al Jobs act, non credo che le assunzioni con il contratto a tutele crescenti siano avvenute principalmente perché è stato tolto l’ultimo velo dell’articolo 18, già cambiato in profondità dalla legge Fornero. Secondo me hanno inciso gli incentivi fiscali, perché l’imprenditore normale sceglie la forma più conveniente».
«Ho difeso per 45 anni l’articolo 18 e ho perso la battaglia. Nei fatti, con il contratto a tutele crescenti c’è la possibilità di licenziare per una motivazione economica, anche quando la motivazione economica è inesistente. Devo anche dire che l’articolo 18 riformato dalla Legge Fornero non aveva nessuna parentela col vecchio articolo 18, che era già stato depotenziato. Non credo che possiamo superare i paradossi semplicemente alludendo al fatto che togliamo a tutti. Io sarei per ridare anche al privato l’articolo 18».
Gli ultimi dati Istat sul lavoro
«Questi numeri ci stanno dicendo che la lettura dei dati relativi all’occupazione è da prendere con le molle, perché a seconda delle fonti abbiamo letture molto diverse. Suggerisco di fare affidamento in particolare al tasso di attività, vale a dire al censimento del numero delle persone comprese tra i 15 e i 66 anni, effettivamente al lavoro in Italia. Quello fa la differenza. Se il tasso di attività aumenta siamo in salute, se invece il saldo è negativo non siamo in buona salute».
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