La Cassazione ha condannato a un anno ed 8 mesi di reclusione un uomo per aver sottratto lo smartphone alla ragazza per leggere i messaggi. «La finalità di prendere il telefono per leggerne il “contenuto” – scrivono i giudici – integra pienamente il requisito dell’ingiustizia del profitto morale»
Da oggi occorre stare ben attenti ad impossessarsi del cellulare del proprio partner per cercare di prendere cognizione dei messaggi. Chi si impossessa di uno smartphone altrui, sottraendolo al legittimo proprietario, per spiare gli SMS, commette il delitto di rapina. Lo ha sancito la Cassazione con la sentenza la n. 24297 del 10 giugno 2016, che ha condannato a un anno ed 8 mesi di reclusione un uomo, stabilendo che commette il reato di rapina e lesioni chi sottrae con forza il cellulare al proprio compagno, contro la sua volontà, al fine di perquisire la messaggeria di Whatsapp. Anche perchè sottraendo il cellulare al suo proprietario per leggere i suoi messaggi, si viola “il diritto alla riservatezza” e si incide “sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane”. La finalità di prendere il telefono per leggerne il “contenuto”, scrivono i giudici, “integra pienamente il requisito dell’ingiustizia del profitto morale”. Essa presuppone sempre l’uso della minaccia o della violenza per impossessarsi della cosa mobile altrui. Infatti, nel caso di specie, il fine di esaminare i messaggi conservati nel cellulare, perquisendo lo stesso ha integrato perfettamente il requisito dell’ingiustizia del profitto. L’uomo con tale gesto ha non solo violato il diritto alla riservatezza della sua fidanzata, ma altre sì ha compresso la sua libertà di autodeterminazione. L’uomo dopo esser stato condannato dalla Corte d’appello aveva proposto ricorso per Cassazione. A nulla sono valse le difese dell’imputato che ha sottolineato come per la configurazione del reato di rapina mancasse l’elemento soggettivo del reato ovvero il dolo, l’intenzione di conseguire un ingiusto profitto, non avendo egli agito alla ricerca di un profitto.
A pensarla diversamente sono stati i giudici di legittimità che hanno sottolineato come il profitto può non consistere esclusivamente in un vantaggio patrimoniale. Esso può coincidere anche con un’utilità, solo morale o consistere in una soddisfazione, o godimento che il soggetto agente appunto immagina di conseguire dalla propria condotta. Inoltre secondo gli Ermellini la sottrazione, con violenza o minaccia, di un oggetto ad un’altra persona, quando questa lo tenga ben stretto, fa scattare la rapina propria. Le motivazioni sottese alla statuizione sono legate innanzitutto all’individuazione delle differenze fra la rapina e il furto con strappo. Tale ultimo reato si configura infatti quando la violenza avviene immediatamente solo sulla cosa e quindi in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene.
La rapina invece presuppone l’appropriazione da parte del reo di una cosa particolarmente aderente al corpo di chi la detiene in quel momento. Il soggetto attivo deve infatti vincere la resistenza del proprietario della cosa e la violenza quindi si estende alla persona. Nel caso specifico, l’imputato aveva infatti diretto la propria azione violenta verso la sua ragazza per arrivare ad impossessarsi del telefonino. Ecco perché non si è potuto configurare il furto con strappo. Insindacabile quindi la condanna dell’uomo che dovrà pagare anche le spese di giudizio.
La sentenza della Cassazione, commenta Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, farà molto discutere proprio per la sua eccessiva severità. Chiunque è tentato a sottrarre il cellulare del partner per prendere cognizione dei messaggi contenuti stia attento: si rischia la galera.