In questo triste gennaio, un’altra grande personalità dello spettacolo italiano ci ha lasciati: è morto a Roma, all’età di 92 anni, il regista Francesco Rosi, uno dei più grandi cineasti italiani, ma anche uno dei più coraggiosi ed impegnati. Rosi era nato a Napoli il 15 novembre 1922, ma viveva da tantissimo tempo a Roma, dove si era sposato con Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia, dalla quale aveva avuto la figlia Carolina, attrice. Tra i più importanti registi italiani del Dopoguerra, Rosi non aveva mai avuto paura di raccontare il marcio della politica, il malaffare o il buio che si celava dietro molti misteri italiani; la sua vocazione per il cinema era iniziata prestissimo, quando, ad appena tre anni, aveva vinto un concorso fotografico che cercava bambini che somigliassero a Jackie Coogan, il mitico “Monello” chapliniano. Iniziò come aiuto regista nei teatri già nel 1946, ma il debutto nel cinema arrivò due anni dopo, quando fu chiamato come assistente alla regia per un altro pilastro del cinema italiano, Luchino Visconti, e il film era “La terra trema”. Con Visconti lavorerà ancora due volte, come co – regista in “Senso” (1954) e sceneggiando il suo film “Bellissima” (1951) con la grande Anna Magnani. Dopo altri film come assistente, nel 1958 firma la sua prima pellicola come regista autonomo: “La sfida”, seguito l’anno dopo da “I magliari”, con Alberto Sordi. Già in questi due film si sente il lato “impegnato” di Rosi, con la rappresentazione della camorra.
I suoi veri capolavori arriveranno negli anni Sessanta: nel 1962 dirige “Salvatore Giuliano” in cui ricostruisce la vicenda del famoso bandito siciliano non tanto come un regista, ma come giornalista (mestiere che aveva esercitato in gioventù), realizzando un reportage “filmico” che trova un filo logico in mezzo a flashback, libere associazioni e continue ellisi, dando allo spettatore l’impressione di star leggendo gli appunti di un cronista invece di vedere un film. Un risultato eccezionale, poi citato o copiato da altri (come fece Scorsese con “Casinò”, del 1995) che all’epoca fece scalpore essendo anche il primo film italiano che cercava non solo di analizzare il fenomeno mafioso in Sicilia, ma parlava esplicitamente dei rapporti nell’ombra tra lo Stato e Cosa Nostra. Il film fu premiato a Berlino e con il Nastro d’argento.
Nel 1963, il regista va avanti con il suo discorso sugli intrecci tra politica e malaffare, e firma il suo secondo capolavoro: esce “Le mani sulla città”, ambientato a Napoli, con l’immenso Rod Steiger nei panni di un viscido costruttore edile. In questo film analizza l’allora crescente fenomeno dell’abusivismo edilizio e dello strapotere dei palazzinari nell’Italia del boom economico. Questa pellicola fu premiata con il Leone d’oro a Venezia. Dopo questi film, Rosi contnuò la sua carriera concedendosi anche storie più leggere (come la favola “C’era una volta”, con Sophia Loren e Omar Sharif), ma continuò a radiografare il Bel paese con “Il caso Mattei”, dedicato alla figura del presidente dell’Eni misteriosamente morto in un “incidente” aereo il 27 ottobre 1962, e con “Lucky Luciano”, dedicato al misterioso gangster italoamericano durante gli ultimi anni della sua vita, ma non per questo messosi a riposo, che mostra come la politica è (troppo) facilmente corruttibile. Queste due opere si avvalgono della splendida performance di Gian Maria Volontè.
In seguito, la sua carriera fu un susseguirsi di pellicole, alcune interessanti altre meno belle, di premi e riconoscimenti, fino al 1997, anno in cui girò il suo ultimo film, “La tregua”, tratto dall’omonimo romanzo di Primo Levi. Poi decise di continuare con la regia teatrale, suo primo amore. Infine, nel 2012 era stato insignito del Leone d’oro alla carriera, ultimo importante regista italiano a riceverlo.
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